Di Matteo Schiaffini.Chi è Greta Thunberg? La risposta ad una domanda simile è abbastanza semplice: una ragazzina svedese di sedici anni. La domanda da porsi è, semmai, cosa c’è e chi c’è dietro la figura della sedicenne? Non mi sto riferendo a loschi figuri che muovono le fila da dietro le quinte al solo scopo privato di un qualche vantaggio misterioso; no, mi riferisco ai milioni di giovani (e non solo) scesi in piazza nel marzo dello scorso anno e del movimento ambientalista formatosi, su scala globale, dopo (se dovessimo dirlo in termini cavallereschi) la discesa in campo della ragazzina svedese.
Questo risveglio delle coscienze, come lo ha chiamato Amnesty International premiandola di tale ambito premio, ha avuto un inizio solitario, per così dire. È il 2018, e un giorno la giovane Greta decide di disertare la scuola, avviando uno sciopero a favore di politiche ambientaliste, promesse dai vari governi presenti a Parigi nel 2016, davanti al parlamento svedese. Passa del tempo e come la goccia che scava la roccia e da forma alla sorgente, anche lei (singola goccia) è riuscita ad inondare le coscienze di milioni di persone, finalmente risvegliate da un torpore causato da un consumistico adagio. Sarebbe pura illusione sostenere che gli stili di vita delle persone siano cambiati, in favore di quella sostenibilità tanto ricercata e rara, (questa è semplicemente un’utopia), per cambiare veramente le cose servono anni, decenni e non basta la sola voglia di scendere in piazza a protestare. È una consolazione, però, che oramai, (dopo anni e anni di battaglie solitarie di scienziati, un nome fra tutti: Clair Patterson), il dibattito pubblico si sia spostato verso e a favore dei tanti e tanti scienziati che parlano di crisi ambientale; ad oggi chi ancora si schiera a favore delle fonti fossili fa la figura dell’imbecille ignorante, come un certo Donald, mentre prima lo era chi sosteneva l’opposto: un cambio di prospettiva notevole se ci si ferma a pensare.
Radicalità, quindi, che ha contraddistinto molto la comunicazione della giovane svedese che chiosa: «parlare di crescita anche quando si parla di green economy, significa andare avanti ma con le stesse idee sbagliate che ci hanno portato a tutto questo. Ma a me non importa di risultare impopolare, mi importa della giustizia climatica e di un pianete vivibile. La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso». Nelle intenzioni non si può non esser d’accordo ma è nella fattibilità che sorgono diverse problematiche: non si può non tener conto dei 100 mila operai che lavorano nelle centrali a carbone in Polonia, ad esempio o ancora dei 12 mila operai che lavoro all’ILVA di Taranto o a tutti quei paesi in via di sviluppo dove la povertà imperversa incontrastata (India prima su tutte) che non se lo possono permettere un passaggio dal praticamente nulla al sostenibile. Ergo la questione è complicata e sul piatto della bilancia ci sono più elementi da tenere in considerazione (d’altronde è proprio la funzione primaria della politica), la radicalità, lo schierarsi può servire sul piano mediatico ma nel concreto questo è un puro sogno che mai si avvererà.

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